
BUR Rizzoli, pp. 892, € 17.
Breve, necessaria anticipazione – forse per giustificare i toni sentimentali che contraddistingueranno questo mio commento: ho amato Il cardellino di un amore urgente e incandescente, ne ho divorato le pagine, tremando all’idea di voltare l’ultima e dovermi staccare da quei personaggi diventati ormai vecchi amici. In fondo, i libri che amiamo sono quelli che ci regalano gioia e sofferenza in egual misura, tra le cui pagine possiamo smarrirci e insieme ritrovare noi stessi, quei libri che – come il quadro de Il cardellino per Theo – sembrano sussurrare il loro intimo incanto e rivelare la loro bellezza a noi e a noi soltanto.
Il romanzo, vincitore del premio Pulitzer nel 2014, racconta la tormentata vita di Theo Decker: appena tredicenne, perde la madre in un attentato terroristico al Metropolitan Museum, dal quale lui stesso riesce a stento a salvarsi. Da quel momento in poi, le sorti del giovane si legano a quelle di un minuscolo quadro amatissimo dalla madre, Il cardellino dell’artista olandese Fabritius, dipinto che finisce per incarnare il simbolo di una felicità perduta e irraggiungibile, della bellezza fragile e immortale che va protetta dalla caducità che caratterizza l’esistenza umana. A metà tra romanzo di formazione e thriller, l’opera della Tartt segue il sofferto passaggio di Theo dall’adolescenza all’età adulta, concentrandosi in particolar modo sulla fragile psiche del protagonista.
Theo, sopravvissuto a un attentato, soffre infatti di DPTS, disturbo post traumatico da stress: l’evento tragico che ha vissuto si è lasciato dietro uno strascico ingombrante, lasciandolo incapace di formulare adeguate risposte allo stress e di discernere le situazioni di pericolo da quelle sicure. Nel corso del romanzo, il lettore si trova più volte a condividere il profondo disagio psicologico vissuto da Theo, con l’uso della prima persona che lascia nudi e sconvolti davanti alla radicata sofferenza del protagonista. Per questo motivo, Il cardellino non è un romanzo facile: c’è la resa vivida e dolorosa del tormento di Theo, c’è la spirale autodistruttiva a base di alcool e droga nella quale sprofonda, c’è il terrore che lo azzanna, c’è l’ansia che lo soffoca. E la Tartt è magistralmente in grado di rendere il lettore partecipe di ognuna di queste sensazioni grazie a una scrittura emotiva, partecipe, elegante e limpida, che rende la lettura scorrevolissima e mai noiosa, nonostante la mole consistente del libro. La seconda metà del romanzo assume in maniera più netta le caratteristiche di un thriller, in concomitanza con il peggiorare della situazione di un Theo che si avvicina – pagina dopo pagina – al bordo del precipizio, senza sapere se avrà la forza di tenere insieme i pezzi e non lasciarsi andare.
Se Theo è un protagonista incredibilmente riuscito, che per buona parte della lettura ho desiderato poter rintracciare e confortare in qualche modo, lo stesso non si può dire di proprio tutti i personaggi secondari, che in alcuni – per fortuna rari – casi mi hanno trasmesso l’impressione di avvicinarsi troppo allo stereotipo. È forse il caso della stessa Pippa, il grande amore della vita del protagonista, con cui non sono riuscita a entrare del tutto in empatia, complice anche il fatto che Theo la trasformi in un simbolo al pari del quadro. Ho invece trovato straordinario il personaggio di Boris, lo scapestrato – ed è dir poco! – migliore amico di Theo e figura per lui fondamentale, unico a conoscere fino in fondo la sua parte più oscura e tormentata e ad amarlo nonostante questo.
Dolore e bellezza, realtà e illusione, morte e immortalità. Il romanzo della Tartt trova forma nella zona grigia nascosta nell’animo di ognuno di noi, dove non esistono concetti di bene o male assoluti, e la storia di Theo non esige ascolto o assoluzione: è un luminoso inno alla sopravvivenza, alla voce immortale di un quadro minuscolo, al sentimento che la bellezza ispira negli uomini, all’amore che è l’unico rimedio accettabile per l’oblio. È una storia che sussurra al cuore, che colpisce dritto e a fondo, che ci annienta dolcemente. È il minuscolo cardellino con la zampa legata al trespolo, che anche nella prigionia non perde la sua luce e la sua inspiegabile dignità. Soffrendo, sì: ma generando così il sublime.