Loki: Il giovane dio dell’inganno, di Mackenzi Lee

LOKI: Il giovane dio dell’inganno, di Mackenzi Lee.
Oscar Vault, pp. 394, 17,00 €.

In uscita oggi, 3 marzo, per Oscar Mondadori – che ringrazio per la copia ARC in anteprima – Loki: Il giovane dio dell’inganno, primo volume di una serie di tre romanzi dedicata ai supercattivi Marvel dell’autrice statunitense Mackenzi Lee, è incentrato sulle vicende di un giovane Loki alle prese con i problemi comuni a qualsiasi adolescente: le difficoltà insite nel crescere e nello scoprire la propria identità, la paura di non venire accettato, la contesa con il proprio fratello maggiore per il trono di Asgard, una serie di omicidi magici che scuotono la Londra del diciannovesimo secolo… Solita routine, insomma.

Esiliato più che inviato tra i fumi e lo splendore opaco della Londra vittoriana per indagare circa le misteriose morti che sembrano rivelare l’operato di uno stregone, il Loki della Lee è inedito e sorprendente: non ancora il famigerato dio dell’inganno, bensì un adolescente in crisi dotato dei poteri di una divinità e alla ricerca del suo posto in un mondo che sembra aver già deciso che lui debba essere il cattivo della storia, il traditore, il perdente. Ma come ci si scrollano di dosso le etichette, quando ci vengono imposte da uno specchio magico che predice il futuro o dai libri di mitologia? Come si combatte contro il destino scelto per noi, quando ogni nostra azione potrebbe involontariamente portarci a realizzarlo?

Loki: Il giovane dio dell’inganno esplora il dualismo che sta alla base della figura dell’Ingannatore e lo fa parlando di crescita e adolescenza, di quel delicato periodo della vita umana (e divina, a quanto pare) che definisce chi siamo e influenza chi diventeremo. L’accattivante intreccio narrativo – un mystery a base di viaggi interdimensionali, omicidi inspiegabili e magia – è il pretesto per un’intima indagine che, dalle strade di Londra, si sposta sempre più verso l’interno, approfondendo oltre alle possibili motivazioni che hanno portato il dio dell’inganno a diventare tale anche questioni di identità, genere e definizione di sé. Le divinità del pantheon norreno che intervengono nel racconto, a partire dagli stessi Loki e Thor, sono più vicine all’indisponente, comica e talvolta commovente umanità degli dei di Gaiman in Miti del nord piuttosto che a quella un po’ sopra le righe, assolutamente supereroistica, degli omonimi personaggi Marvel.

Mackenzi Lee firma un piacevole romanzo d’intrattenimento che coniuga una trama densa di eventi a uno stile chiaro, mai semplicistico, che rende la lettura scorrevole e coinvolgente anche per chi dovesse essere digiuno in materia Marvel.

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Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace

Una cosa divertente che non farò mai più, di David Foster Wallace.
minimum fax, pp. 151, 15 €.

Inizialmente concepito come reportage di una crociera extralusso ai Caraibi commissionato a Wallace da Harper’s Magazine, Una cosa divertente che non farò mai più è stato il mio primo approccio a DFW e mi ha spiazzata con la sua sagace ironia, che finisce per allontanare l’opera dallo scopo originale e trasformarla in una critica divertita ma pungente nei confronti dell’industria del divertimento e di quell’americanitudine che caratterizza il cittadino americano medio – ma che in realtà rispecchia un approccio al lusso e all’appagamento comune a molti, qualunque sia la loro nazionalità.

Il titolo originale dell’opera, A Supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again, è a mio parere più esplicativo riguardo il giudizio dell’autore in merito alla crociera: l’esperienza è apparentemente divertente, ma rivela ben presto un volto allucinato e sottilmente disperato. A bordo della Zenith – che Wallace ribattezza prontamente Nadir – il divertimento è glamour, scintillante, sterilizzato, spasmodicamente ricercato, perseguito e imposto tramite ogni mezzo, i crocieristi sono sollevati da qualsiasi genere di incombenza, sia fisica che mentale, serviti e coccolati da un esercito di camerieri, facchini, cuochi, addetti alle pulizie e personale vario. La brochure promette il cibo migliore, il divertimento migliore, il servizio migliore, addirittura il cielo migliore possibile, di un impossibile blu lapislazzuli. Chiunque prenda parte a una crociera extralusso del genere vuole disperatamente credere che sia tutto vero, che dietro i sorrisi di cortesia dello staff non si nasconda un annoiato disprezzo e che l’appagamento coltivato in serra sia reale.

Alla patinata irrealtà che caratterizza la descrizione della nave da crociera e dei servizi offerti si contrappone la grettezza di tanti tra i crocieristi e il personale, ritratti da Wallace in scenette che, pur mantenendo la leggerezza di gag spassose, rivelano vacuità, snobismo e vizio. Lo sguardo dell’autore si addentra tra le meccaniche del divertimento mercificato, delle quali studia in maniera disincantata il funzionamento, ma al contempo restandone fuori, come impaurito: e qui emerge una vena più fragile, vagamente isterica, che dà voce alla disperazione e alla profonda solitudine che necessariamente accompagnano la massificazione.

In un colpo solo, Wallace è riuscito a divertirmi, darmi conferma del fatto che le crociere non facciano per me e dialogare con l’insicurezza che mi stringe lo stomaco ogni volta che mi trovo in situazioni fuori dalla mia comfort zone (sono parecchie, ve lo assicuro): e da pesce fuor d’acqua (di piscina o caraibica che sia), l’ho adorato.

4321, di Paul Auster

4321, di Paul Auster.
Einaudi, pp. 951, 17 euro.

Folle, geniale Auster.

Come parlare del libro con cui ho iniziato il 2020 e che mi ha accompagnato in queste prime settimane dell’anno, come descrivere una tra le letture più immersive, complesse ed entusiasmanti mai portate a termine, un viaggio rocambolesco in vent’anni di storia e cultura americane, una passeggiata lunga novecento pagine al fianco di un protagonista che in realtà sono quattro, straordinari protagonisti?

Innanzitutto, è doveroso ringraziare il nostro Virgilio – Serena del blog ilcaffegatto.com – e gli altri, valorosi membri della ciurma del Caffè di gruppo: è stato bello camminare con voi, grazie per i commenti e i tormenti condivisi, in salute (degli Archie) e in #mainagioia.

4321 è un luna park caotico e gigantesco, una folla rumorosa in mezzo alla quale smarrirsi, un coro di voci che, ascoltate insieme, rendono un vivido spaccato della società americana dagli anni ’50 ai ’70: non è solo la biografia delle quattro possibili, immaginarie versioni della stessa persona, Archie Ferguson, ma anche quella di un Paese intero, che vive e respira tra le pagine del romanzo, raccontandosi attraverso la politica, la letteratura, l’arte.

Nato il 3 marzo del 1947 (un mese esatto dopo Paul Auster – ed è impossibile non concludere che lo scrittore abbia messo tanto di sé e della sua esperienza nella sua creatura di carta), Archie è il primo e unico figlio di Stanley Ferguson e Rose Adler: nel momento stesso della sua nascita, la finzione narrativa ci consente di seguire quattro tra le possibili strade che la vita del protagonista potrebbe intraprendere. Percorsi estremamente diversi tra loro che si allontanano progressivamente l’uno dall’altro, differenziandosi per le scelte compiute e le esperienze vissute, ma anche per tutti quegli eventi – trascurabili o importanti che siano – soggetti al dominio del caso. È proprio quella musica del caso tanto cara ad Auster, tra i temi principali esplorati in molte delle sue opere, a decidere come si svilupperanno le esistenze dei quattro Archie, tramite un complesso gioco di predestinazione, casualità e coincidenze.

Cosa sarebbe successo se, a quel determinato bivio della mia vita, avessi scelto diversamente? Auster si diverte a dare non due, non tre, ma ben quattro possibili risposte all’interrogativo con il quale ognuno di noi, prima o poi, si trova a doversi confrontare. Il risultato è un romanzo geniale e intricatissimo, nel quale personaggi e situazioni si ripresentano spesso nella vita di più di uno tra gli Archie, magari con lo stesso ruolo, ma influenzandone in maniera differente il percorso: e i quattro protagonisti, gemelli estremamente diversi, condividono pochissimi punti in comune. Tra questi, l’amore sproporzionato per la lettura – che trova espressione nell’enorme quantità di romanzi, saggi e raccolte di poesia divorati dagli Archie e menzionati tra le pagine di 4321 – e per la scrittura. E qui il legame con Auster è lampante: i quattro protagonisti scrivono per vivere, per respirare, per comprendere il mondo che li circonda. Traduttore, poeta, giornalista, scrittore, diversi modi per professare amore e rispetto nei confronti della stessa meravigliosa, totalizzante attività.

Opera complessa che affonda le sue radici nel contesto politico, sociale, geografico e culturale di un turbolento ventennio di storia americana, 4321 spazia dalla guerra fredda al Vietnam, dalle rivolte studentesche ai moti anti-razziali: siamo lanciati in viaggio su un’autostrada lunghissima e assolata che, come in un film, corre attraverso l’America degli anni ’50 prima e ’60 poi. Niente cartine geografiche da consultare, la meta è incerta: seguiamo l’architettura fuori dal comune di un romanzo che, come la vita vera, non è mai lineare né semplice, anzi.

Auster è una guida preparatissima e sorniona, la sua scrittura un folle volo che turbina tra le pagine e trascina il lettore come il tornado de Il mago di Oz: e sarebbe facile smarrirsi nel periodare ampio e incalzante che contraddistingue la quasi totalità della narrazione in 4321, ma il talento va di pari passo con l’estro creativo, il castello degli Archie incrociati ha fondamenta solide per i suoi corridoi labirintici e l’America di Auster resta impressa nella mente e negli occhi del lettore. Un romanzo di formazione? Forse, se concepiamo l’idea che crescere significhi anche accettare l’inaccettabile, amare quanto di imperfetto, sbagliato e doloroso ci portiamo dietro: un discorso che vale per il singolo, ma più in generale per l’intero. Il caos dell’esistenza umana ricalca quello che, in determinati periodi storici, mette a ferro e fuoco le nazioni: e il disgregarsi della stessa persona in quattro sembra richiamare quell’America divisa e in lotta con se stessa che emerge dalle pagine del romanzo, un’America che non è mai solo cornice o sfondo.

Non nego che, a tratti, mi è stato difficile amare le lunghe parentesi storiche e politiche così come ho amato i momenti di vissuto, difficile seguire i tanti dettagli riguardanti fatti, luoghi e personaggi dell’epoca, difficile immergermi nell’altro grande tema caro alla letteratura americana, ovvero lo sport e in particolare il baseball. Vertiginoso, commovente, esaltante e difficile, 4321 è la puntina che gira sul vinile del caso, un inno all’arte e alla letteratura, un atto d’amore sconfinato per la scrittura e un’ode al sentimento amoroso, un’opera spesso metaletteraria in cui si intrecciano diversissimi campi del sapere umano: ma è anche e soprattutto la storia di una vita, anzi quattro, attraverso fanciullezza e adolescenza, fino alla soglia dell’età adulta. Se i quattro Archie dominano il racconto con la loro natura straordinariamente molteplice, gli altri personaggi del romanzo non sono da meno e Auster dimostra l’abilità e il talento di un ritrattista nell’immortalare figure indimenticabili.

Quali eventi ci rendono le persone che siamo? Quali influiscono di più sulla nostra crescita, fisica ed emotiva? Quali incontri ci cambiano, quali ci depistano, quali ci guidano? Impossibile rispondere a meno di non possedere un’onniscienza che esiste solo nei romanzi: se nella realtà quindi non esiste risposta, nella finzione si può tentare di darne una, elevando lo scrittore al ruolo di creatore e dando forma a un’opera immensa e multiforme come la vita stessa.

La peste, di Albert Camus

La peste, di Albert Camus.
Bompiani, pp. 336, 11.

Incuriosita dai parallelismi che questo romanzo sembra offrire con l’attualità, ho iniziato la lettura de La peste di Camus quasi per gioco, aspettandomi un romanzo che esplorasse la dimensione del contagio, della paura e dell’isolamento, in cui il morbo – in questo caso la peste – la facesse da padrone. Nulla di più lontano dalla realtà. L’epidemia di peste che colpisce la città algerina di Orano è il pretesto che Camus sfrutta per analizzare la reazione dell’uomo davanti a un male che si dimostra inspiegabile e assoluto: il risultato è un romanzo accorato, in cui tragedia e sofferenza offrono lo spunto per parlare di umanità, amicizia e amore, scienza e fede, speranza e illusione.

La natura de La peste mi è sembrata fin da subito duplice: se il libro è intriso di drammaticità e patetismo, attraversato dalle urla sofferenti dei moribondi e dalla cupa disperazione che grava su Oriano, il messaggio che Camus vuole esprimere è invece positivo, un inno ottimista alla speranza e ai buoni sentimenti, alla luce che può e deve ispirare le azioni umane nei momenti peggiori.

I personaggi raccontati incarnano diverse disposizioni d’animo davanti al male: e, nella sinfonia del romanzo, spicca la forza di alcune voci soliste. Il dottor Rieux, vero protagonista dell’opera, è un antieroe che spoglia il suo ruolo di ogni prodezza: attraversa stancamente le pagine svolgendo il suo compito senza riserve, mai spinto da pretese di eroismo o santità, mosso dalla sola coscienza di opporsi in quanto medico al dilagare della malattia. Rieux rappresenta la bontà che vive nella concretezza delle azioni e non in un’idea trascendentale, spirito fratello rispetto all’altro grande personaggio del romanzo, Tarrou, il quale affronta la vita facendosi vittima vittima per non diventare mai carnefice.

L’idea di fondo è che, se il morbo esiste ed è naturale e assume svariate forme nell’esperienza umana, si deve piuttosto scegliere di far parte delle vittime e non di associarsi al flagello: la peste è insita nella natura umana stessa, nella banalità di quel male che è ignoranza e spinge a infliggere dolore ai propri simili, ma l’uomo per Camus è fondamentalmente buono, come dimostrano i personaggi de La peste. Da opporre al morbo troviamo la straordinaria grandezza, sempre attuale, del restare umani: che sia con l’amore, la fede religiosa, il rigore scientifico, la compassione, la speranza o ancora l’innocenza – commovente e bellissimo il personaggio del funzionario comunale Grand, che riscrive all’infinito la prima frase del suo romanzo, alla ricerca delle parole giuste per esprimersi.

La peste non è un romanzo gradevole, tutt’altro: è difficile da leggere, angosciante, caratterizzato da una prosa asciutta che solo a tratti si apre in passaggi di inaspettato lirismo; ma è un romanzo necessario, com’è necessaria la memoria del male che è stato. Perché il contagio può regredire, ma che “la peste possa andare e venire senza che il cuore dell’uomo ne sia modificato” è una pia illusione: lo sa bene Rieux, sa che il bacillo può dormire per anni – nei mobili, nella biancheria o sul fondo del cuore degli uomini – e svegliarsi di colpo un giorno. Bisogna vigilare, bisogna ricordare: e soprattutto, bisogna amare e non condannare la miseria così come la nobiltà insite nell’essere umani.

Le transizioni, di Pajtim Statovci

Le transizioni, di Pajtim Statovci.
Sellerio, pp. 272, 16 euro.

Muoversi leggeri nel mondo, privi del fardello di un’identità fissa, di un ruolo definito nella società, di una patria e di una nazionalità da attribuirsi: un’intollerabile libertà che talvolta assume i tratti di una maledizione. Secondo romanzo del giovanissimo scrittore finlandese di origini albanesi Pajtim Statovci, Le transizioni si muove con l’intimità di una confessione e la ferocia di uno smembramento nello spazio che divide la luce dall’ombra, nel profondo di ognuno di noi.

Bujar, il protagonista, nasce e cresce all’ombra dei palazzoni di una Tirana in fermento: sono gli anni ’90 e l’Albania è divisa tra miseria e violenza, molti emigrano verso l’Italia, terra promessa vicinissima e al contempo troppo lontana. Dopo l’improvvisa morte del padre di Bujar, i fili invisibili che tengono unita la famiglia cedono di schianto e il giovane trova sicurezza e conforto nell’amicizia con il coetaneo Agim, migliore amico e vicino di casa. Agim, nato uomo in una società intollerante per la quale non potrebbe essere nulla di diverso, cerca la sua identità femminile tra gli abiti e i gioielli della sorella, finché non viene scoperto e percosso dal padre: è l’occasione per scrollarsi finalmente di dosso quella vita di limitazioni e povertà e i due amici decidono di fuggire insieme, verso Durazzo, l’Italia, e poi?

Romanzo di irrealizzabile formazione, Le transizioni è un lungo itinerario che attraversa Europa e America e un altrettanto lungo viaggio alla ricerca di sé: Bujar indossa un’infinita serie di maschere, una per ogni nuova città, rubando nomi, identità, paure e sogni dalle persone che incontra, che condivida con loro solo una notte o una fugace storia d’amore. Tutti o nessuno? Bujar è un continuo divenire e cerca le parole che riempiano gli spazi bianchi della sua storia scritta a metà, quasi condividendo il destino dell’odiata patria, quell’Albania rimossa da ogni suo racconto e alla quale sente di non appartenere, quella terra tormentata e povera, umiliata e dimentica della propria identità.

Lo schiacciante senso di non appartenenza che il protagonista urla tra le pagine del romanzo incarna la maledizione del non poter approdare mai: novello Ulisse che cerca la sua Itaca tra i grattacieli di New York e le aule di un corso di scrittura creativa a Berlino, appartiene a ogni angolo di mondo e contemporaneamente a nessuno. Donna riservata e affascinante, giovane innamorato e comprensivo, ragazza seducente in tacchi alti e gonna corta, Bujar assume molteplici identità e vive svariate realtà: per opportunismo, per amore, per creare sé stesso e rinascere ogni giorno. Sa che è diritto imprescindibile di ogni essere umano il potersi ricomporre come un puzzle, senza essere limitati dal sesso o dalla terra d’origine, ma finisce per smarrirsi nello spazio immenso che è la ricerca della propria essenza più vera.

Di una bellezza limpida e dolorosa, Le transizioni è un romanzo difficile da leggere perché privo di qualsiasi mediazione tra il lettore e la sofferenza di Bujar, che domina le pagine e brucia, e taglia, e fa male. È una storia potente che esige ascolto e attenzione, che lascia con l’amaro in bocca, ma sicuramente arricchiti.

La Splendente, di Cesare Sinatti

La Splendente, di Cesare Sinatti.
Feltrinelli Editore, pp. 238, € 16,50.

Imbattersi in una riscrittura originale e ancora in grado di raccontare qualcosa di nuovo su di una materia antica e preziosa come il ciclo troiano è fonte di meraviglia, sensazione che non mi ha mai abbandonato nel corso della lettura di La Splendente, di Cesare Sinatti. Il giovanissimo aedo, che con questo suo romanzo d’esordio ha vinto il Premio Calvino nel 2016, seleziona episodi fulgidi come gemme da quella collana di eventi che è il ciclo troiano, portando in scena la tragica e bellissima umanità degli uomini e delle donne che stanno dietro al mito.

Non c’è posto per la grandezza, nel racconto di Sinatti, nessun eroismo che gonfia il petto né spavalderia che infuoca l’animo: grandiosamente umane sono le maledizioni e la follia che avvelenano il sangue, la codardia davanti alla morte, la paura di venire dimenticati, la nostalgia per la patria. Gli eroi greci sono bambini che giocano alla guerra, impugnando spade e lance più grandi di loro; e le invalicabili mura di Troia, bianche e immense, sembrano “tracciare il confine stesso della terra“. Più simbolicamente, la guerra di Troia assume i contorni di uno spartiacque: c’è un prima, c’è un’epoca luminosa ed eroica in cui i figli degli dei hanno camminato in mezzo agli uomini, coprendosi di fama e onori con le loro imprese. E c’è un dopo, un’età di divinità addormentate e irraggiungibili nei loro cieli lontani, un’età degli e per gli uomini, con solo i cantori a ricordare le gesta degli eroi del passato.

Nel mezzo tra eroi e uomini, stanno i soldati ragazzi di Troia: l’ultima generazione votata alla grandezza e ispirata a compiere imprese gloriose, in un mondo che cambia rapido e dimentica le sue divinità. Sinatti ammalia il lettore con un racconto che si fa intimo, lirico e sentimentale: brillano figure tradizionalmente minori come quella di Epipola, la principessa greca che indossò l’armatura dell’anziano padre per andare in guerra al posto suo. E anche i grandi protagonisti del mito, nello smettere i panni dell’eroe per mostrarsi in quanto uomini, mettono a nudo la loro nascosta essenza, rivelandosi fragili e grandissimi: ho sentito miei il tormento di Achille davanti alla paura della morte, la pacifica riluttanza di Menelao, l’insicurezza armata di rabbia di Agamennone. Ho sofferto e ho amato, come madre, sposa, figlio, amante, compagno.

Il romanzo di Sinatti si è dimostrato splendente quanto la bellissima Elena dal cui epiteto prende il nome: nasce nel sangue dei sacrifici e nella polvere dei campi di battaglia, ma racchiude in sé la grazia di una poesia e la luce di un prodigio.

Le sette morti di Evelyn Hardcastle, di Stuart Turton

In un grido angosciato sospeso tra l’oscurità e la pioggia, il protagonista di Le sette morti di Evelyn Hardcastle riprende conoscenza nel bosco con la memoria ridotta a una tabula rasa, portando con sé un unico ricordo: il nome di una sconosciuta, Anna. Chi è lei? Chi è lui e dove si trova? Perché non ricorda nulla se non quel nome? Convinto di essere vittima di un’aggressione e testimone di un omicidio – forse proprio ai danni della misteriosa Anna -, l’uomo si trascina fuori dal bosco verso la decadente magione di Blackheath House, segnata da un tragico destino che sembra doversi ripetere.

Diciannove anni prima, la vita degli abitanti della villa fu stravolta dall’omicidio del giovane Thomas Hardcastle; oggi, nel giorno dell’anniversario del luttuoso evento, un’altra morte è destinata a sconvolgere il ballo organizzato dai coniugi Hardcastle. La bellissima Evelyn, figlia primogenita dei padroni di Blackheath House, alle undici di sera scivola nel laghetto, freddata da un colpo di pistola allo stomaco. Chi l’ha uccisa? L’interrogativo interessa in particolar modo lo smemorato protagonista, Aiden Bishop: finché non risolverà il mistero dell’omicidio di Evelyn Hardcastle, dovrà rivivere la stessa giornata per otto volte, svegliandosi ogni giorno nei panni di un invitato diverso. Un ciclo destinato a ripetersi all’infinito a meno che Aiden non identifichi l’assassino, fermando il loop temporale: in un complesso puzzle di incastri e corrispondenze, non tutti a Blackheath sono chi sostengono di essere e i nemici sono in agguato dietro ogni angolo…

Il romanzo d’esordio di Stuart Turton si è dimostrato un’esperienza straordinaria che è riuscita a entusiasmare e avvincere persino me, mio malgrado allergica ai gialli. Mi sono trovata a ripercorrere le pagine a ritroso cercando indizi e conferme, a buttar giù ipotesi per poi vederle crollare come un castello di carte, a sospettare dei personaggi che si muovono tra i corridoi di Blackheath House. Le sette morti di Evelyn Hardcastle mi ha ricordato una partita a Cluedo – di quelle elettrizzanti e piene di colpi bassi – vissuta sulla propria pelle. Turton sceglie di usare la prima persona, affidando la narrazione ad Aiden: scelta a mio parere vincente perché permette al lettore di immedesimarsi completamente nell’indagine, seguendo la caotica traccia di briciole che si dipana pagina dopo pagina.

Girone infernale folle e intricatissimo sospeso tra il giallo e il paranormale, il romanzo di Turton nell’ultima parte corre veloce tra nuovi interrogativi, incarnazioni e comparse, tanto da depistare a tratti lo stesso lettore, che annaspa tra le proprie congetture e le vede progressivamente smentite: l’inatteso (quasi del tutto) finale funziona a meraviglia, dando un’adeguata risposta a ognuna delle domande sorte durante la lettura. A voler trovare a tutti i costi una pecca, l’eccessiva macchinosità di alcuni passaggi rivela un orgoglioso sfoggio di tecnica (e come biasimarlo?) più che una reale necessità narrativa.

Labirintico, intrigante, geniale: Le sette morti di Evelyn Hardcastle, anche se senza bussola, mi ha conquistata con i suoi ingranaggi ingegnosi e un po’ deliranti.

La ballerina dello zar, di Adrienne Sharp

La ballerina dello zar, di Adrienne Sharp.
Neri Pozza, pp. 413, €17,50.

Un tempo prima ballerina dei Teatri Imperiali russi, la ormai anziana Mathilde Kschessinska rievoca tra le pagine di La ballerina dello zar la sua storia, assieme al ricordo di un’epoca ormai svanita tra le nebbie del passato, quella della Russia sotto la dinastia Romanov. Il suo racconto è intimamente legato al destino dell’ultimo zar di Russia, Nicola II, che per Mathilde sarà sempre e solo l’amato Niki: i due si conoscono appena adolescenti, promettente stella del teatro Mariinskij lei, timido zarevic’ lui, quando lo zar Alessandro III li affianca durante una cena. Il malcelato intento dello zar è spingere il figlio a instaurare un rapporto con la giovane: è tradizione infatti che imperatori, granduchi e nobili scelgano le loro amanti tra le ballerine dei Teatri Imperiali, privilegiandone i corpi tonici e la fresca bellezza. Quel che Alessandro III non può prevedere è la profondità del legame che coinvolgerà i due nel corso delle loro vite e, soprattutto, il carattere tenace, passionale e calcolatore di Mathilde.

La Sharp, nel prestar voce alla famigerata ballerina, dà forma a un racconto malinconico e suggestivo, che trasporta il lettore nella Russia dei Romanov e lo immerge nell’atmosfera fredda e luminosa del Palazzo d’Inverno, di una San Pietroburgo che ormai vive solo nel ricordo, delle dimore sfarzose e opulente dell’alta società. Il rimpianto e la nostalgia per qualcosa che non esiste più si respirano fin dalle prime pagine del romanzo: Mathilde è una narratrice precisa, che usa la sua onniscienza per sottolineare con più forza lo stridente contrasto tra passato e presente, e il suo racconto vibra di emozioni e sensazioni tanto vivide da rendere La ballerina dello zar un viaggio immersivo e coinvolgente nella società dell’epoca, che si ha l’impressione di poter toccare, respirare, assaporare.

Mathilde, amante di uno zar e di due granduchi, non sembra un personaggio con il quale sia facile empatizzare: lei stessa si definisce opportunista, il lettore la vede ingegnarsi per mantenere un rapporto con Niki anche dopo il suo matrimonio con Alix d’Assia, pianificare ogni sua azione in vista di un tornaconto personale, sfruttare chiunque entri nelle sue grazie per ottenere ricchezze e potere pari a quelli dei Romanov. Al contempo, la semplicità con la quale si spoglia di ogni artificio e menzogna nel raccontarsi ispira una profonda simpatia. Il quadro di luci e ombre che ne viene fuori è quello di una donna tormentata, passionale, talentuosa e forte, capace di un amore caparbio e ostinato: Mathilde Kschessinska diventa un fantasma tra i fantasmi, una dei pochi testimoni superstiti di un mondo che può solo essere rievocato, nella sua bellezza e nella sua ferocia.

La ballerina dello zar è il racconto di una donna attraverso il quale parla un’epoca intera: le immagini evocate lottano per lasciare la pagina e rivelarsi nel loro splendore abbagliante, una musica ovattata ci guida attraverso le pagine, sussurrandoci una magnificenza dimenticata, quella della corte dei Romanov in tutta la sua grandezza. Al pari di Mathilde, diventiamo profeti di un finale tragico e annunciato, ma non per questo meno doloroso: appena il tempo di un balletto per innamorarsi ed è già tutto finito.

Eccesso di zelo, di Domenico Starnone

Eccesso di zelo, di Domenico Starnone.
Feltrinelli Editore, pp. 141

L’eccesso di zelo evocato nel titolo del romanzo – tra i meno noti di Starnone – è quello che spinge il protagonista, dattilografo sofferente a causa di una rottura non recentissima, a inserirsi nel conflitto tra Silvana, collega di lavoro, e Riccardo, l’ex fidanzato vanesio e manesco.

Dapprima cortesemente disinteressato, poi sempre più partecipe della vicenda, il protagonista di Eccesso di zelo finisce per smarrirsi tra le incomprensioni e le contraddizioni che caratterizzano la vita quotidiana e i rapporti tra le persone. Inseritosi in un triangolo amoroso che si presta a diventare quadrato e pentagono, l’uomo tenta di risolvere la situazione con razionalità ma si perde nello spazio che intercorre tra il sonno e la veglia, tra personaggi reali e immaginari, tra gelosie proprie e altrui in una Roma caldissima e disfatta.

La vicenda narrata mette in scena con divertita ironia le nevrosi e le ambiguità dei diversi personaggi, in particolar modo quelli maschili: dal protagonista, in apparenza sornione e allusivo ma in realtà privo di qualsiasi concretezza e autorità, a Riccardo, un “jack of all trades, master of none” che sguazza nel fallimento della sua relazione ed elenca fantomatici successi lavorativi. Situazioni e personaggi raccontati con maestria e leggerezza da uno Starnone che mi ha convinta qui più che in Lacci, confermandosi un osservatore sagace e accattivante del fallimento umano, delle piccole manie e degli ego immensi e fragilissimi.

Cortesie per gli ospiti, di Ian McEwan

Cortesie per gli ospiti, di Ian McEwan.
Einaudi, pp. 134, € 10.

Torbido, ambiguo, seducente: potrei definire così il mio secondo incontro con McEwan. Cortesie per gli ospiti è un libro che, al pari di Nel guscio, si diverte a giocare con le convenzioni sociali e la morale comune, mettendo in scena un dramma provocatorio dai risvolti non completamente inaspettati, ma non per questo meno disturbanti.

In un’innominata e afosa città riconoscibile come Venezia, si snoda la vicenda di una coppia di turisti inglesi: dopo diversi anni di relazione e spentasi la passione iniziale, Colin e Mary sembrano aver consacrato loro stessi e la loro vacanza a un’oziosa quotidianità fatta di monotonia e lunghi silenzi. La routine viene interrotta dall’incontro con Robert, personaggio misterioso e particolare che insiste per far loro da anfitrione, e sua moglie Caroline, esile e sofferente, all’apparenza quasi reclusa tra le mura domestiche: ma cosa si nasconde realmente dietro le premure e le cortesie che i due riservano alla coppia inglese?

Se il finale, crudo e brutale, è intuibile già nel mezzo del romanzo, il talento di McEwan sta però nel turbare il lettore sovvertendo ciò che è socialmente e comunemente accettato: se in Nel guscio troviamo un feto che spazia tra riflessioni filosofiche e morali, mentre la madre incurante tracanna vino rosso e pianifica l’omicidio del padre, in Cortesie per gli ospiti assistiamo a una serie di capovolgimenti che sconvolgono i concetti di ospitalità e cortesia, la sessualità e i legami familiari. Vengono a mancare punti fermi ideologici così come geografici: un senso sottile e permeante di spaesamento grava sull’intero racconto, Mary e Colin si perdono tra le strade della città e in loro stessi, sempre più confusi e disorientati, attirati in una trappola che non vedono scattare fino a quando è troppo tardi per sottrarsi a essa.

McEwan confonde e stordisce, ma al contempo delinea con dolorosa esattezza le caratteristiche dei quattro attori protagonisti: più che un thriller, Cortesie per gli ospiti è uno straordinario romanzo psicologico che, in poco più di cento pagine, riesce ad affascinare e ripugnare. Il lettore viene catturato nel vortice psichedelico di una città abbacinante, forzato a mettere in dubbio le basi stesse del vivere civile; si intuisce che qualcosa andrà terribilmente storto, ma ci si stupisce lo stesso davanti al marcio nascosto dietro il volto più amichevole.