Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro

Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro.
Einaudi, pp. 294, € 9,50.

Letto per il febbraio dedicato a Ishiguro di #manlovebookerprize e mio primo vero approccio all’opera dello scrittore premio Nobel, con Quel che resta del giorno sento di aver compreso e accolto il potenziale magnetico della sua scrittura, mio malgrado sfuggitomi nella lettura di Non lasciarmi, qualche anno fa. Se in quest’ultimo caso la narrazione non era riuscita ad assorbirmi, l’opera vincitrice del Booker Prize mi ha invece conquistata fin da subito. E dire che ero partita prevenuta: non mi convinceva l’idea di un romanzo incentrato, in buona parte, sulle solitarie riflessioni di un uomo fin troppo diligente e ligio al dovere, l’impeccabile maggiordomo Stevens.

Antieroe tipicamente ishiguriano, sospeso tra la concretezza della realtà e la fumosità del ricordo, Mr. Stevens ha speso la sua esistenza – lavorativa e non – al servizio di un gentiluomo dalla dubbia morale, Lord Darlington, che ci viene presentato attraverso lo sguardo indulgente del fedelissimo protagonista. Alla sua morte, nel secondo dopoguerra, l’imponente magione di Darlington Hall viene rilevata – maggiordomo compreso – da un ricco signore americano. Stevens accetta, quasi obbligato dal nuovo datore di lavoro, di prendersi una settimana di libertà dopo anni di inesausto lavoro e parte per un viaggio in automobile verso la Cornovaglia, dove conta di incontrarsi con Miss Kenton, un tempo governante a Darlington Hall. Per l’ormai anziano maggiordomo, il viaggio in solitaria è occasione per un’introspezione che lo porta a una pacata disamina degli anni trascorsi servendo Lord Darlington e a una lunga riflessione che coinvolge la sua professione, attraverso le idee di grandezza e dignità, il suo modo di stare al mondo e il senso stesso di una vita trascorsa al servizio degli ideali di qualcun’altro.

Il romanzo è articolato sotto forma di diario, nel quale gli incontri, i piccoli eventi che capitano a Stevens nel corso delle diverse giornate o i tranquilli scenari della campagna inglese circostante – esempio di bellezza che sta nella misura e nella semplicità -, forniscono materiale per reminiscenze che non assumono mai toni alterati o disperati, ma restano conformi al narratore, misurate e in qualche modo distaccate. Il contegno dell’irreprensibile maggiordomo diventa chiave di lettura dell’opera e dell’intera realtà in essa veicolata: la dignità, per Stevens, si fa caratteristica fondamentale nel lavoro così come nella vita, con quel senso del dovere tanto pronunciato da impedirgli di comportarsi spontaneamente anche nelle relazioni sociali e nel privato.

Quel che resta del giorno è un romanzo malinconico, a tinte soffuse come il momento della giornata che evoca: quella sera che è al contempo pace dopo una giornata di duro lavoro e metafora dell’anzianità, del tramonto del periodo più fecondo nella vita. Straordinario nella sua compostezza, in quella sorvegliatissima misura che coinvolge anche la prosa stessa, quasi come se fosse stato davvero il morigerato Stevens a scriverlo!, quello di Ishiguro si è rivelato un capolavoro, un’opera bellissima e dolorosa nella quale fare i conti assieme al protagonista con lo sconforto per una vita apparentemente vissuta invano, con la malinconia che avvelena dolcemente il ricordo, con la nostalgia per un mondo diverso, giunto ormai al capolinea. Il sole tramonta sul maggiordomo, incastrato nella sua armatura di lealtà e dovere, e lo lasciamo a chiedersi se sia possibile smettere di tormentarsi per un passato che non si può più cambiare: e se il vero spazio di cambiamento sia davvero davanti a noi, da qualche parte in quel che resta del giorno.

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