Guida il tuo carro sulle ossa dei morti, di Olga Tokarczuk

Il romanzo di Olga Tokarczuk, scrittrice polacca vincitrice del premio Nobel per la letteratura nel 2018, ha catturato la mia attenzione fin dal titolo, quel profetico e inquietante rimando a un verso del poeta inglese William Blake: Guida il tuo carro sulle ossa dei morti è una fiaba macabra ambientata in un paesino di confine tra la Polonia e la Repubblica Ceca, un noir atipico e vagamente allucinato raccontato attraverso gli occhi di un’eccezionale protagonista.

Janina – ma guai a chiamarla col suo nome! – Duszejko è infatti indimenticabile nella sua stravaganza: anziana insegnante di inglese con la passione per le poesie di Blake e l’astrologia, nutre un profondissimo amore per gli animali, che la spinge a intraprendere vere e proprie crociate contro i cacciatori della zona. Quando una serie di morti turbano la quiete della valle di Kłodzko, la Duszejko si improvvisa investigatrice e avanza l’ipotesi che si tratti di omicidi perpetrati dagli animali selvatici per vendicarsi della crudeltà e della violenza umane. A uno scenario iniziale che sembra richiamare le fiabe del folklore polacco, tra il bianco della neve e il silenzio che ammanta ogni cosa, subentrano le tinte quasi grottesche di questo giallo particolarissimo e ammaliante, cadenzato sulle riflessioni di Janina e sui suoi incontri con altri, altrettanto eccentrici, personaggi.

La voce di Janina è buffa, ironica e commovente: combatte con orgoglio la sua battaglia persa contro la spavalda ferocia dell’uomo, riconosce la fraterna scintilla che accomuna uomini, animali e piante, ribattezza chiunque incontri con nomi che ne traducano l’anima in parole e si affanna attorno al calcolo degli oroscopi per tentare di comprendere l’inconoscibile, l’ordine che organizza il caos. La prosa delicata e visionaria della Tokarczuk è parte dell’incanto gotico e fiabesco di un romanzo che, attraverso l’ardente poesia della sua protagonista, parla di diritti degli animali, amore verso il prossimo e libertà individuale.

L’educazione, di Tara Westover

L’educazione, di Tara Westover
Feltrinelli Editore, pp. 380, € 11

L’educazione è uno sconvolgente memoir in cui la saggista e storica statunitense Tara Westover racconta la sua infanzia e adolescenza e il suo tardivo, problematico approccio con l’educazione. Nata e cresciuta tra le montagne dell’Idaho da genitori mormoni anarco-survivalisti, ultima di sette fratelli, Tara fino ai nove anni non possiede nemmeno un certificato di nascita: lei e i suoi fratelli non sono mai stati visitati da un medico, non vanno a scuola e ricevono un’educazione approssimativa e ampiamente carente a casa, ignari di qualsiasi cosa accada nel mondo.

Il capofamiglia Gene, eccentrico fino a sconfinare nella follia, è affetto da un mai diagnosticato disturbo bipolare ed è talmente incosciente da rappresentare un pericolo: ossessionato dall’idea che la fine del mondo sia prossima, cresce i suoi figli secondo principi morali e religiosi rigidi quanto contorti, abituandoli ad accumulare provviste e a tenersi sempre pronti per la fine che considera imminente. Tara e i fratelli lavorano nella discarica del padre e gli infortuni gravi, curati maldestramente con erbe e preghiera dalla madre guaritrice, sono all’ordine del giorno. Il fratello maggiore Shawn, che si impone come guida e modello per la piccola Tara con l’obiettivo di allontanarla dal Male, è in realtà un uomo disturbato e violento, che sfoga la sua aggressività sulle sorelle più piccole.

Il romanzo della Westover è di una fisicità spesso brutale, che aggredisce il lettore con il racconto dei molteplici incidenti ai quali i membri della famiglia sopravvivono a stento, delle percosse che Tara subisce per mano del fratello, delle ossa rotte, dei traumi mai curati, delle cadute rovinose. Nell’angosciante concretezza di questi passaggi nasce una contraddizione che oppone il concetto di famiglia – inteso come luogo sicuro in cui crescere fisicamente e spiritualmente – alla realtà fatta di violenza psicologica e abusi che caratterizza la famiglia Westover.

Che fare quando è la nostra stessa famiglia a iniettarci il veleno che ci intorpidisce i pensieri? Quando l’antidoto, qualsiasi esso sia, comporta necessariamente una rinuncia, uno strappo, una rottura definitiva? E di che antidoto si tratta, in questo caso? Per Tara, non ci sono dubbi: l’educazione. Dilaniata da un conflitto tra la casa arroccata sulla montagna e il college luminoso e lontano, tra il diventare la donna che la sua famiglia vorrebbe e quella che sente crescere dentro di sé, tra l’oblio e il ricordo, Tara non trova risposte facili alle domande che l’assillano. Forse, non ne trova affatto: ma trova, nel profondo di sé, lo spazio per comprendersi e accettarsi.

L’educazione è un romanzo che fa un male tremendo e non soltanto quando serri i pugni di fronte all’ennesimo, spesso immotivato scoppio di violenza che brucia tra le pagine: fa male perché pensi che “no, non può essere successo davvero” e invece la realtà da cui Tara è fuggita via è ancora quella in cui vivono molte bambine, giovani donne e adulte. È una storia splendida e soffocante di emancipazione sofferta, perché coincide con il rinunciare a una parte fondamentale di sé, la propria famiglia; è un racconto che consegna tra le mani del lettore il sommo valore dell’educazione, che non può riassumersi in una serie di nozioni o formule matematiche, perché significa soprattutto conoscere, spezzare le catene del fanatismo e dell’ignoranza, diventare consapevoli di sé. In una parola, crescere.

Il dominio del fuoco, di Sabaa Tahir

Il dominio del fuoco, esordio letterario della scrittrice americana di origini pakistane Sabaa Tahir e primo volume dell’omonima saga, è uno young adult fantasy ambientato in una terra immaginaria dalle caratteristiche mediorientali, che ha visto l’imporsi del sanguinario popolo dei marziali sui nativi abitanti del luogo, come i dotti e i tribali. L’Impero, macchina crudele organizzata sul modello dello storico Romano, vive del lavoro e della paura delle popolazioni sottomesse, private di qualsiasi diritto e persino della loro arte e cultura.

Laia, diciassettenne nata in una famiglia di dotti, è cresciuta sottomettendosi al regime che ha ucciso i suoi genitori e la sorella maggiore; non si ritiene coraggiosa né intraprendente fino al momento in cui sarà costretta a diventare entrambe le cose: quando una Maschera – uno dei guerrieri scelti dell’Impero – cattura suo fratello Darin e uccide i suoi nonni. La salvezza di Darin è nelle mani dei ribelli che osteggiano l’Impero, i quali affidano a Laia un compito all’apparenza impossibile: introdursi a Rupenera, l’accademia nella quale vengono addestrate le Maschere, per spiarne la terribile Comandante. Elias sta per diplomarsi all’accademia e diventare una Maschera a tutti gli effetti dopo quattordici anni di durissimo addestramento: ma non prova orgoglio né fiducia nelle sue capacità, solo il terribile dubbio di essere nel posto sbagliato e la paura di stare seguendo la via sbagliata, nonostante abbia la fiducia dei suoi compagni e l’affetto della migliore amica Helene. Il promettente soldato non può fare a meno di mettere in discussione le basi stesse del dominio marziale, gettate sul sangue e sul sudore degli schiavi: quando Laia ed Elias si incontrano, i loro destini si intrecciano tra loro e con le sorti dell’Impero stesso.

Il romanzo di Tahir cattura il lettore fin dalle prime pagine con il fascino cupo e caotico di una storia coinvolgente, mai banale, che non si assottiglia negli stereotipi del genere pur mostrando in alcuni punti gli ovvi debiti nei confronti di altre saghe di YA fantasy. L’atmosfera orientaleggiante e desertica che caratterizza l’ambientazione, gli aspetti politici e socioculturali del regime che richiamano da vicino quelli dello storico Impero Romano, i richiami alla mitologia islamica che sono il fulcro di un non invadente sistema magico: questi i punti di forza del romanzo. L’uso alternato della prima persona – che divide la narrazione tra Laia ed Elias, personaggi multiformi che non rientrano nelle logiche manichee di bene o male – riesce a mantenere il ritmo sostenuto anche nei passaggi più lenti, attenuando in parte la sensazione di “premessa” che il romanzo trasmette, nota dolente in parte giustificata dal fatto che Il dominio del fuoco sia solo il capitolo introduttivo di una saga decisamente più lunga. Altre note vagamente dolenti sono la scarsa empatia che i personaggi secondari – spesso relegati in un indistinto sottobosco di volti e nomi – suscitano nel lettore e un doppio triangolo amoroso appassionante in teoria, ma fastidiosamente inconcluso e inconcludente all’atto pratico.

Il dominio del fuoco si è rivelato un brillante esordio letterario, un fantasy scritto bene che mantiene alta l’attenzione del lettore, rendendo la lettura scorrevolissimo e appassionante.

Signorina Cuorinfranti, di Nathanael West

Signorina Cuorinfranti, minimumfax

Tra le opere oggi più conosciute di West insieme a Il giorno della locusta, il celebre Miss Lonelyhearts conobbe un successo tardivo e posteriore alla prematura scomparsa dell’autore, avvenuta a causa di un incidente d’auto. Il cinismo e la durezza delle tematiche trattate da West, del resto, mal si accordano con i gusti di un pubblico che desidera un intrattenimento leggero e divertente, in grado di distrarre dalla difficile situazione americana nel post crisi economica.

Signorina Cuorinfranti è forse l’esempio più emblematico delle contraddizioni insite nella narrativa di West, come Matteo Bianchi non manca di far notare nell’interessante prefazione al testo: innanzitutto, è la storia di un uomo che si firma con uno pseudonimo femminile, rispondendo alle disperate missive delle sue lettrici in materia di problemi di cuore. Quella che può inizialmente sembrare una farsa allegra e simpatica, si rivela ben presto una feroce e angosciante deriva nella mente del protagonista e in una nerissima America in piena Grande Depressione. Le stesse lettere ricevute dalla Signorina Cuorinfranti – che viene identificato solo per mezzo del suo nome di penna – rivelano una dimensione crudele e terrificante di abusi, problemi di salute e difficoltà economiche. Un vero e proprio circo degli orrori in cui il protagonista resta progressivamente coinvolto, incapace egli stesso di trovare pace, inconsolabile tra gli inconsolabili: cerca una risposta nell’alcool e nel sesso occasionale senza trovarla, guarda alla religione – che consiglia ai suoi lettori come un influencer dei giorni nostri potrebbe fare con un paio di scarpe – in maniera meccanica e astratta, senza ricavarne alcun conforto.

Il risultato è un terribile dramma umano, un’allucinata lettura nella quale seguiamo un protagonista incapace di ispirare qualsiasi forma di empatia: i lettori della sua rubrica immaginano la delicata Signorina Cuorinfranti come attenta e sensibile, mentre lui si rivela essere un uomo inquieto e distaccato, ossessionato dall’idea di risolvere le sofferenze del mondo, ma al contempo incapace di lasciarsi andare a qualsiasi reale coinvolgimento. Un romanzo durissimo, in alcuni passaggi allucinato, che si legge in poche ore: non l’ho forse apprezzato come avrei voluto, ma ne ho sentito tutta la forza critica e distruttiva.

L’invenzione della solitudine, di Paul Auster

Alla morte del padre Sam, figura enigmatica e assente nella vita famigliare, il figlio Paul – scrittore e io narrante di questo breve e introspettivo romanzo – ne ricostruisce l’esistenza tramite una lunga serie di immagini trafugate al tempo, per esorcizzare il dolore della perdita con l’atto creativo e suggellare quell’immortalità che solo la penna sa donare.

Nel rispondere al doloroso imperativo della scrittura, Auster concepisce un racconto dalla duplice natura, speculare al suo essere figlio e padre allo stesso tempo: la prima sezione, Ritratto di un uomo invisibile, è un’intima storia famigliare e il commovente ritratto di un padre assente, refrattario a ogni forma di rapporto, delle cui rare dimostrazioni di affetto Paul sentirà la mancanza per tutta l’infanzia. Nella seconda parte, Il libro della memoria, lo stile si fa volutamente più frammentario e confuso, un flusso di coscienza riversato con urgenza su carta: l’autore racchiude in una serie di brevissime istantanee il significato di farsi padre del figlio Daniel, ma anche di sé stesso e delle sue opere letterarie.

Il demone della solitudine, condizione indispensabile alla scrittura, occupa lo spazio reale e metaforico della stanza: simbolo caro a molti tra scrittori e poeti, luogo per eccellenza in cui isolarsi dal resto del mondo per dedicarsi al proprio travaglio letterario. Sofferto, ma indispensabile. Come Shahrazàd, che notte dopo notte continua il suo racconto per avere salva la vita, Auster sa di dover scrivere e scrivere e scrivere per mantenere in vita il ricordo. Per individuare quella viscerale connessione tra significati, parole, luoghi e persone, la musica del caso che permea la vita di ogni essere umano, legandolo in un’intima catena che si estende ad abbracciare l’umanità intera.

L’invenzione della solitudine è un racconto delicato e commosso, in cui Auster riesce a immergersi profondamente dentro di sé e parlare al contempo di e per ognuno di noi, in quanto padri e in quanto figli, raccontando la dolorosa bellezza che sta nel diventare.

Le mille e una morte, di Jack London

Nel racconto che presta il titolo all’intera raccolta, un uomo viene ripetutamente ucciso dal padre, il quale – novello Abramo che insegue il rigore della scoperta scientifica invece di un guizzo del divino – sottopone suo figlio a una lunga serie di morti, inflitte nelle maniere più disparate, al fine di dimostrare la possibilità per un corpo di sopravvivere al decesso. Sul finale, il figlio fa letteralmente evaporare nell’aria il padre, riducendolo a una sorta di prodotto della psiche. Qual è lo spazio che intercorre, in questo racconto dal sapore parascientifico, tra il London narratore e il London uomo – ossessionato dal suo status di figlio illegittimo e tormentato dall’incertezza riguardo la reale identità del padre?

Ne Le mille e una morte – raccolta di sette racconti che dalla baia di San Francisco attraversa lo sconfinato Klondike, fino a giungere in una Polinesia primitiva e sanguinaria – il filo rosso è proprio quella della morte, davanti alla quale personaggi di London chinano il capo, con rispetto e tranquilla accettazione. Presagi fatali incombono sulle pagine e su tutto aleggia il fantasma di una violenza che è brutale e animalesca: i protagonisti dei racconti sembrano percepirlo, consapevoli di vivere “già nell’ombra della morte”. Un fatalismo che si fa bruciante della ricerca di una Rivelazione in grado di spiegare il meccanismo del tutto, come per il protagonista de Il dio rosso, racconto allucinato che sconfina nel territorio del mostruoso. I personaggi londoniani sono uomini di scienza, rigorosi e materialisti – affini al realismo dello scrittore, cresciuto da una madre spiritista e per questo incredulo nei confronti dell’esistenza di un mondo altro.

La vera alterità, a volerla cercare, è già parte di noi. Nei racconti di questa raccolta, si rincorrono tematiche quali quella del Doppio, dell’Altro, il ritorno all’Uno: una costante presenza dell’inconscio che sembra farsi beffe dell’ostinato raziocinio al quale si aggrappano testardamente personaggi come l’anonimo protagonista di Allestire un fuoco.

Ho apprezzato molto questi racconti vividi, esotici e violenti, nei quali la natura si fa ardente e spietata protagonista, madre sanguinaria che risveglia gli istinti più brutali dei suoi figli, divinità primitiva che prende il sopravvento sulla logica e la razionalità. Le atmosfere cupe e allusive e la scrittura tagliente e diretta di London vengono rese magnificamente grazie all’ottima traduzione.

Il cardellino, di Donna Tartt

Il cardellino, di Donna Tartt.
BUR Rizzoli, pp. 892, € 17.

Breve, necessaria anticipazione – forse per giustificare i toni sentimentali che contraddistingueranno questo mio commento: ho amato Il cardellino di un amore urgente e incandescente, ne ho divorato le pagine, tremando all’idea di voltare l’ultima e dovermi staccare da quei personaggi diventati ormai vecchi amici. In fondo, i libri che amiamo sono quelli che ci regalano gioia e sofferenza in egual misura, tra le cui pagine possiamo smarrirci e insieme ritrovare noi stessi, quei libri che – come il quadro de Il cardellino per Theo – sembrano sussurrare il loro intimo incanto e rivelare la loro bellezza a noi e a noi soltanto.

Il romanzo, vincitore del premio Pulitzer nel 2014, racconta la tormentata vita di Theo Decker: appena tredicenne, perde la madre in un attentato terroristico al Metropolitan Museum, dal quale lui stesso riesce a stento a salvarsi. Da quel momento in poi, le sorti del giovane si legano a quelle di un minuscolo quadro amatissimo dalla madre, Il cardellino dell’artista olandese Fabritius, dipinto che finisce per incarnare il simbolo di una felicità perduta e irraggiungibile, della bellezza fragile e immortale che va protetta dalla caducità che caratterizza l’esistenza umana. A metà tra romanzo di formazione e thriller, l’opera della Tartt segue il sofferto passaggio di Theo dall’adolescenza all’età adulta, concentrandosi in particolar modo sulla fragile psiche del protagonista.

Theo, sopravvissuto a un attentato, soffre infatti di DPTS, disturbo post traumatico da stress: l’evento tragico che ha vissuto si è lasciato dietro uno strascico ingombrante, lasciandolo incapace di formulare adeguate risposte allo stress e di discernere le situazioni di pericolo da quelle sicure. Nel corso del romanzo, il lettore si trova più volte a condividere il profondo disagio psicologico vissuto da Theo, con l’uso della prima persona che lascia nudi e sconvolti davanti alla radicata sofferenza del protagonista. Per questo motivo, Il cardellino non è un romanzo facile: c’è la resa vivida e dolorosa del tormento di Theo, c’è la spirale autodistruttiva a base di alcool e droga nella quale sprofonda, c’è il terrore che lo azzanna, c’è l’ansia che lo soffoca. E la Tartt è magistralmente in grado di rendere il lettore partecipe di ognuna di queste sensazioni grazie a una scrittura emotiva, partecipe, elegante e limpida, che rende la lettura scorrevolissima e mai noiosa, nonostante la mole consistente del libro. La seconda metà del romanzo assume in maniera più netta le caratteristiche di un thriller, in concomitanza con il peggiorare della situazione di un Theo che si avvicina – pagina dopo pagina – al bordo del precipizio, senza sapere se avrà la forza di tenere insieme i pezzi e non lasciarsi andare.

Se Theo è un protagonista incredibilmente riuscito, che per buona parte della lettura ho desiderato poter rintracciare e confortare in qualche modo, lo stesso non si può dire di proprio tutti i personaggi secondari, che in alcuni – per fortuna rari – casi mi hanno trasmesso l’impressione di avvicinarsi troppo allo stereotipo. È forse il caso della stessa Pippa, il grande amore della vita del protagonista, con cui non sono riuscita a entrare del tutto in empatia, complice anche il fatto che Theo la trasformi in un simbolo al pari del quadro. Ho invece trovato straordinario il personaggio di Boris, lo scapestrato – ed è dir poco! – migliore amico di Theo e figura per lui fondamentale, unico a conoscere fino in fondo la sua parte più oscura e tormentata e ad amarlo nonostante questo.

Dolore e bellezza, realtà e illusione, morte e immortalità. Il romanzo della Tartt trova forma nella zona grigia nascosta nell’animo di ognuno di noi, dove non esistono concetti di bene o male assoluti, e la storia di Theo non esige ascolto o assoluzione: è un luminoso inno alla sopravvivenza, alla voce immortale di un quadro minuscolo, al sentimento che la bellezza ispira negli uomini, all’amore che è l’unico rimedio accettabile per l’oblio. È una storia che sussurra al cuore, che colpisce dritto e a fondo, che ci annienta dolcemente. È il minuscolo cardellino con la zampa legata al trespolo, che anche nella prigionia non perde la sua luce e la sua inspiegabile dignità. Soffrendo, sì: ma generando così il sublime.

Eve: Il risveglio dei ricordi dimenticati, di Giovanni Torchia

Eve: Il risveglio dei ricordi dimenticati, di Giovanni Torchia
bookabook, pp. 160, 13,00€

Esordio letterario di Giovanni Torchia, che non a caso nella vita si occupa di consulenza ambientale e studi sulla biodiversità, Eve: Il risveglio dei ricordi dimenticati è un romanzo ascrivibile al filone della climate fiction (cli-fi), genere a metà tra distopia e fantascienza che coniuga l’ambientazione post-apocalittica al forte peso assunto dalle tematiche ecologiste nel corso della narrazione.

Il futuro immaginato nelle pagine del romanzo non è così distante dal nostro presente, appena una decina di anni in più a partire da adesso, ma sono intercorsi sostanziali cambiamenti, sia ambientali che sociali e politici. L’inquinamento, i cambiamenti climatici e il massiccio sfruttamento delle risorse naturali hanno stravolto i diversi ecosistemi, rendendo la Terra un luogo ostile e, in molte zone, quasi invivibile. Quasi di riflesso, la società ha vissuto una brusca inversione, retrocedendo verso una politica autoritaria e oscurantista, che perseguita la libera cultura e nega teorie e progressi scientifici un tempo assodati: una nuova epoca buia, nella quale regimi e dittature sorgono tra le ceneri della democrazia. In un mondo che vuole cancellare la propria storia, nasce Eve, dotata di un dono straordinario che le permette di ricordare tutto dal momento del suo concepimento in poi – ogni azione svolta, ogni immagine vista, ogni frase letta. La memoria di Eve non si limita però alla sua vita, ma risale indietro fino ai ricordi dei suoi antenati e oltre, a reminiscenze di una vita animale e cellulare, istinti, sensazioni, impulsi.

Il romanzo di Torchia vibra d’amore e rispetto nei confronti del nostro pianeta, torturato e reso invivibile a causa della scelleratezza umana: lo scenario che prende forma tra le pagine è tristemente familiare ed è facile collocarlo in un futuro non troppo remoto, nel quale le tematiche ambientali hanno perso in favore del guadagno la già scarsa rilevanza di cui godono nel presente. La protagonista, attraverso il lungo filo rosso della memoria, incarna quel legame biologico tra uomo e ambiente che i regimi totalitari del futuro vorrebbero cancellare, quella perfetta compenetrazione in cui la natura si fa madre per l’intera umanità, ritenuta un’eresia inaccettabile. Eve porta un nome che suona simbolico nel richiamare il mito di Eva, colei dalla quale ebbe origine l’umanità: e, nel conservare in sé la memoria del mondo, la protagonista assume i tratti di una madre intenta a guidare e insegnare ai suoi figli la loro stessa storia.

Il nucleo centrale del romanzo è di sicura originalità e le difficoltà riscontrate in alcuni passaggi nel caratterizzare con precisione il personaggio di Eve – la cui individualità cede spesso terreno alle personalità e alle caratteristiche dei suoi antenati – vengono compensate dall’uso sapiente che l’autore fa delle doti della protagonista, introdotte e messe a frutto in maniera graduale – con il risultato di una narrazione che dà l’impressione di ampliarsi progressivamente. La lettura è resa scorrevole e coinvolgente anche grazie allo stile lineare e privo di fronzoli dell’autore, che rivela però grande sensibilità nel trattare le tematiche inerenti il rapporto uomo-natura. La mia maggiore critica è relativa al finale, che ho trovato troppo poco incisivo ed eccessivamente affrettato rispetto ai tempi più distesi mantenuti dalla narrazione nel resto del romanzo. Ho apprezzato molto lo sguardo disilluso e al contempo mai rassegnato che Torchia riserva alla tematica ambientale: consiglio questo romanzo a chiunque voglia un approccio delicato ma non banale a un tema tanto attuale.

Avrai i miei occhi, di Nicoletta Vallorani

Avrai i miei occhi, di Nicoletta Vallorani.
Zona42, pp. 272, € 13, 90.

Disonore su di me, disonore sulla mia famiglia, disonore sulla mia mucca: prima di Avrai i miei occhi, non avevo mai letto nulla della straordinaria Nicoletta Vallorani, tra le voci più affermate della fantascienza italiana e prima donna ad aggiudicarsi, nel ’92, il Premio Urania con il suo romanzo d’esordio Il cuore finto di DR. Scrittrice eclettica che nel corso degli anni ha saputo spaziare dal noir alla letteratura per l’infanzia, con Avrai i miei occhi la Vallorani torna a muoversi in territorio fantascientifico, tra le cicatrici di una Milano futura, nerissima e devastata. La metropoli sopravvive divisa, geograficamente e socialmente: le ferite inferte al tessuto urbano hanno la consistenza di mura invalicabili che separano la ricca area residenziale della Città Murata dalla Cinta, magma ribollente di miseria e violenza.

I protagonisti del romanzo sono mutilati quanto la città che abitano: mutilati nella percezione di sé, negli affetti, nelle storie che si trascinano dietro come bagagli troppo ingombranti. Nigredo è chiamato a investigare sul ritrovamento di decine di corpi di donne, abbandonati nei campi industriali che circondano la città e ne costituiscono il confine ultimo; Olivia, sguardo impassibile a mascherare l’orrore sepolto nel suo passato, lo aiuta nelle indagini: i due si conoscono da tempo, anime e solitudini gemelle, due sopravvissuti che non si rassegnano ai nuovi confini di una città che ricordano intera. Cosa si nasconde dietro quei corpi di donne, diafani e bellissimi? Sono davvero solo cavie, oggetti, bambole costruite per soddisfare le voglie perverse di uomini simili a bestie, alimentando il mercato teoricamente illecito degli snuff?

La Vallorani costruisce sapientemente un’indagine che si snoda nel labirinto di una città disgregata e in quello della mente umana. Lo fa attraverso una scrittura elegante e chirurgica, che accoglie in sé il candore della neve su Milano e il rigore dei corpi che la infestano, in pennellate brevissime che disegnano una geografia di dolore, violenza e bellezza. Il pregio di Avrai i miei occhi non si esaurisce nell’originale componente futuristica e distopica dell’ambientazione: ci sono le tinte noir che l’indagine assume, c’è lo stile della Vallorani nero come la notte e dolce come il peccato, ci sono i personaggi fragili e contorti, in fieri, presentati tramite un’accorta alternanza tra narrazione in prima e seconda persona. C’è la denuncia – senza mai scadere nel semplicismo – di un sistema che mercifica e svende il corpo della donna, che derubrica gli stupri e la violenza: tematiche che non vanno inseguite tra le ombre di una città del futuro, perché tristemente attuali. C’è un puzzle di visi e corpi che sancisce e celebra l’unicità di ogni individuo e condanna coloro che vorrebbero ridurci a un unico modello, a una matrice prestabilita. C’è la Milano da incubo, corpo urbano ferito che accoglie fantasmi ed emarginati tra le sue cicatrici fresche. E c’è il filo rosso che lega due anime perdute “sull’orlo slabbrato del mondo”, per usare le parole dell’autrice.

Un libro da leggere, che siate o meno amanti del genere fantascientifico, per scoprire o riscoprire una penna straordinaria e una storia potente ed essenziale.

Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro

Quel che resta del giorno, di Kazuo Ishiguro.
Einaudi, pp. 294, € 9,50.

Letto per il febbraio dedicato a Ishiguro di #manlovebookerprize e mio primo vero approccio all’opera dello scrittore premio Nobel, con Quel che resta del giorno sento di aver compreso e accolto il potenziale magnetico della sua scrittura, mio malgrado sfuggitomi nella lettura di Non lasciarmi, qualche anno fa. Se in quest’ultimo caso la narrazione non era riuscita ad assorbirmi, l’opera vincitrice del Booker Prize mi ha invece conquistata fin da subito. E dire che ero partita prevenuta: non mi convinceva l’idea di un romanzo incentrato, in buona parte, sulle solitarie riflessioni di un uomo fin troppo diligente e ligio al dovere, l’impeccabile maggiordomo Stevens.

Antieroe tipicamente ishiguriano, sospeso tra la concretezza della realtà e la fumosità del ricordo, Mr. Stevens ha speso la sua esistenza – lavorativa e non – al servizio di un gentiluomo dalla dubbia morale, Lord Darlington, che ci viene presentato attraverso lo sguardo indulgente del fedelissimo protagonista. Alla sua morte, nel secondo dopoguerra, l’imponente magione di Darlington Hall viene rilevata – maggiordomo compreso – da un ricco signore americano. Stevens accetta, quasi obbligato dal nuovo datore di lavoro, di prendersi una settimana di libertà dopo anni di inesausto lavoro e parte per un viaggio in automobile verso la Cornovaglia, dove conta di incontrarsi con Miss Kenton, un tempo governante a Darlington Hall. Per l’ormai anziano maggiordomo, il viaggio in solitaria è occasione per un’introspezione che lo porta a una pacata disamina degli anni trascorsi servendo Lord Darlington e a una lunga riflessione che coinvolge la sua professione, attraverso le idee di grandezza e dignità, il suo modo di stare al mondo e il senso stesso di una vita trascorsa al servizio degli ideali di qualcun’altro.

Il romanzo è articolato sotto forma di diario, nel quale gli incontri, i piccoli eventi che capitano a Stevens nel corso delle diverse giornate o i tranquilli scenari della campagna inglese circostante – esempio di bellezza che sta nella misura e nella semplicità -, forniscono materiale per reminiscenze che non assumono mai toni alterati o disperati, ma restano conformi al narratore, misurate e in qualche modo distaccate. Il contegno dell’irreprensibile maggiordomo diventa chiave di lettura dell’opera e dell’intera realtà in essa veicolata: la dignità, per Stevens, si fa caratteristica fondamentale nel lavoro così come nella vita, con quel senso del dovere tanto pronunciato da impedirgli di comportarsi spontaneamente anche nelle relazioni sociali e nel privato.

Quel che resta del giorno è un romanzo malinconico, a tinte soffuse come il momento della giornata che evoca: quella sera che è al contempo pace dopo una giornata di duro lavoro e metafora dell’anzianità, del tramonto del periodo più fecondo nella vita. Straordinario nella sua compostezza, in quella sorvegliatissima misura che coinvolge anche la prosa stessa, quasi come se fosse stato davvero il morigerato Stevens a scriverlo!, quello di Ishiguro si è rivelato un capolavoro, un’opera bellissima e dolorosa nella quale fare i conti assieme al protagonista con lo sconforto per una vita apparentemente vissuta invano, con la malinconia che avvelena dolcemente il ricordo, con la nostalgia per un mondo diverso, giunto ormai al capolinea. Il sole tramonta sul maggiordomo, incastrato nella sua armatura di lealtà e dovere, e lo lasciamo a chiedersi se sia possibile smettere di tormentarsi per un passato che non si può più cambiare: e se il vero spazio di cambiamento sia davvero davanti a noi, da qualche parte in quel che resta del giorno.